Assistenza meccanica e assistenza umana: la storia di una TFCPC e l’importanza del “lato umano” della professione

Assistenza meccanica e assistenza umana: la storia di una TFCPC e l’importanza del “lato umano” della professione

Un paziente con una pericardite costrittiva e un difficile percorso di ripresa sono alla base della riflessione della TFCPC Paola Marra: da una visione tecnica alla riscoperta di un approccio umano verso i pazienti

Anche questa settimana la Commissione d’Albo dei Tecnici di Fisiopatologia cardiocircolatoria e Perfusione cardiovascolare presenta un racconto di vita professionale di una collega: una breve storia dal forte impatto emotivo, questa volta ambientata in uno scenario più consueto per la professione, che ci invoglia a riscoprire l’aspetto “umano” di un lavoro “tecnico” come il nostro, non solo per i pazienti ma anche per noi stessi!

A raccontarla è la collega Paola Marra dello European Hospital: buona lettura!

Sono un Tecnico di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare (TFCPC), la mia attività lavorativa si svolge nella sala operatoria di cardiochirurgia. Mi occupo della gestione della circolazione extracorporea con ausilio della macchina cuore-polmone, che permette di sostituire temporaneamente la funzione di pompa del cuore e di ossigenazione dei polmoni per mantenere in vita i pazienti durante le operazioni a cuore aperto, rendendo possibile l’esecuzione dell’intervento cardiochirurgico. Il mio è un lavoro di équipe: perfusionista (come veniamo chiamati in gergo noi TFCPC che lavoriamo nell’ambito della perfusione cardiovascolare), chirurgo, anestesista, strumentista, infermiere di sala, personale ausiliario; tutti, dal primo all’ultimo, collaboriamo insieme come anelli di una catena e ci impegniamo affinché tutto vada per il meglio. 

UNA DIFFICILE OPERAZIONE

La storia che sto per raccontarvi risale all’estate di qualche anno fa. Quel pomeriggio si prospettava un solo caso, ma un po’ diverso dal solito. Il paziente in lista aveva una pericardite costrittiva per cui doveva sottoporsi ad una pericardiectomia. Il pericardio è una sottile membrana che circonda il muscolo cardiaco, costituita da un foglietto esterno ed uno interno, che aderisce al cuore, e tra questi due strati si trova un liquido che funge da lubrificante durante i movimenti del ciclo cardiaco. In seguito ad un processo infiammatorio, il pericardio di questo paziente era diventato una cotenna fibrosa tale da compromettere nel tempo la funzione del cuore. Era arrivato al punto in cui si rendeva necessario intervenire al più presto in quanto la patologia di base aveva ormai determinato uno scompenso cardiaco. L’intervento era molto complesso: bisognava scollare il pericardio adeso (ed asportarne una parte) per liberare il cuore. Io ero di supporto. Dovevo essere in stand by in sala operatoria, pronta ad intervenire. Infatti, in alcuni casi, è necessaria l’assistenza cardiopolmonare per la presenza di aderenze importanti e sanguinamento.

In quelle ore ho avuto modo di conoscere la storia clinica di quel giovane paziente. Prima di arrivare da noi, aveva trascorso diversi periodi di ricovero in vari ospedali per la sintomatologia ingravescente che aveva molto limitato la sua vita negli ultimi tre anni. Quell’intervento rappresentava l’unica possibilità di tornare ad una vita “normale”. 

L’intervento, eseguito dal nostro Primario, riuscì. Gli fu praticata una pericardiectomia parziale.  Invece il suo decorso post operatorio non fu né semplice né breve. Restavano i sintomi di uno scompenso tale da richiedere molti giorni di degenza in terapia intensiva. La situazione destava preoccupazioni nei medici anestesisti e nel personale della terapia intensiva che si prendeva quotidianamente cura di lui. La sua giovane età e il suo percorso di sofferenza mi colpirono. In quelle settimane di permanenza in clinica scelsi di stargli vicino, per me era diventato non più il paziente della stanza 102. Era P.I. che significava per me “Potenziale Inespresso” in quanto questa malattia gli stava togliendo la capacità di esprimersi e la possibilità di relazionarsi col mondo, come sarebbe stato normale (e giusto) alla sua età.

Non potrò mai dimenticare le sue parole quando mi diceva che le palpitazioni causate dalla patologia erano ormai diventate le sue amiche. L’intervento aveva rappresentato la speranza di uscire da questo tunnel. Il giorno di Ferragosto, dopo la tanto attesa conferma arrivata dal responso di alcuni esami, fu dimesso e poteva finalmente tornare a casa. 

 

 

 

IL PAZIENTE È INNANZITUTTO UNA PERSONA

Questa vicenda mi ha dato la possibilità di capire che la nostra professione può andare al di là del fare semplicemente il proprio dovere. Nessuno può comprendere del tutto il dolore di chi affronta un percorso di malattia, e il paziente (che innanzitutto è Persona) non è mai abbastanza preparato. L’aspetto emotivo influisce, e non poco, sulla ripresa da un intervento. Noi operatori possiamo contribuire (tanto o poco chi può dirlo) a migliorare questo stato se cambiamo un po’ il nostro modo di porci, accompagnando i pazienti nel loro difficile percorso, semplicemente facendogli sentire la nostra presenza, il nostro conforto. Questo articolo, questa storia, vuole solo indurre una riflessione: possiamo scegliere di non essere dei semplici mestieranti e ritornare ad essere noi stessi, seguendo davvero la nostra vocazione. Diamoci la possibilità di partecipare ad una parte della vita dei pazienti che incontriamo nel nostro lavoro, certo sempre mantenendo la “giusta distanza” a tutela della nostra professionalità.  

Il mio amico/paziente oggi sta bene, così come la sua famiglia. Sono trascorsi 5 anni dal quel giorno e dall’inizio della nostra amicizia. Perché siamo innanzitutto delle Persone prima che dei tecnici.

Dott.ssa Paola Marra

TFCPC - European Hospital, Roma